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sabato 23 aprile 2011
Non facciamoci del male - Let's not hurt ourselves
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Primo racconto
Siamo seduti nella lounge a Malpensa in attesa di imbarcarci per il nostro volo per Toronto. Di fianco a noi una famiglia, piccola. I genitori sembrano meno giovani di quello che ti aspetteresti guardando la figlia, che dovrebbe avere nove o dieci anni sebbene parli con quella innaturale e fastidiosa maturità, tipica dei bambini cresciuti a forza, sviluppati precocemente, quasi accelerati. La mamma siede proprio di fianco a me, è appena tornata dalla visita al duty free. La figlia la apostrofa seccamente: “ero sicura che ti saresti comperata le sigarette” esclama. In effetti sa pesantemente di tabacco. Sta smanettando sul suo computer che ha acceso nello stesso instante in cui si è seduta, e cerca di collegarsi alla posta. Il padre, chino e prigioniero del suo portatile, emerge dalla concentrazione per annunciare quali titoli ha appena comperato alla borsa di Taipei o giù di lì. La bambina cerca di interagire, di interrompere questo circolo informatico. Invano. Alla si decide ad estrarre dal suo zaino una playstation nella quale si immerge istantaneamente.
Secondo racconto
Sono due professionisti, avvocati forse, o notai. La storia non dice, se non che sono stimati ed efficaci. Vivono un bel condominio immerso nel verde. Sono persone coraggiose. Anni fa hanno adottato una bimba asiatica, che ora va per i tredici anni, e ne hanno anche uno loro, un maschio, poco più grande.
E sono grigi, polverosi. Implosi.
Tutto ciò che fanno sembra goffo, sgraziato. Ridicolo per i maliziosi. Non si conoscono loro amici. Li vedono fare tutto assieme, vivere come un corpo solo, senza sorrisi, chiusi spesso in casa, dalla quale si dice emani un odore grasso e acido, che ti fa pensare alla tenebra e alla morte. Forse cibo, forse altro, forse solo tristezza.
I figli sono educatissimi: ti salutano in modo cortese e appropriato ogni volta che ti incontrano. Eppure lo fanno con occhi spenti, annebbiati che ti fanno pensare ai personaggi di un film dell’orrore pronti a sorridere formalmente mentre ti stanno per sventrare. Ti sembrano coperti da un mantello grigio di fuliggine, come gli orchetti dentro a Mordor.
E allora? Perché raccontare queste due storie? Per deridere? Biasimare? Assolutamente no. Non ce n’è alcun bisogno né senso. Perché è sempre più facile vedere la pagliuzza altrui che la propria trave.
Piuttosto come provocazione, per riflettere, per ragionare su di noi. Per capire. Noi, non loro.
E per suggerire: famiglie, non facciamoci del male da soli!
Attendo vivamente i vostri commenti, sono graditissimi.
English version
First story
We sit in the lounge in Malpensa, waiting for our flight to Toronto. Next to us a small family. Parents are aged compared to the young girl, she should be nine or ten although she talks with a annoying maturity of a accelerated grown up kid. The mother sits close to me, she just came back from a trip to the duty free. “I could have bet you would have bought cigarettes” the girls reproach her. Actually she heavily smells tobacco. She is working on her laptop, she opened it the same moment she set. She is wandering in her mail trying to find something. The dad is bend on his laptop, announcing from time to time which kind of stokes he is buying in Taipei or somewhere else. The girl try to interact, trying to break this circle, without any results. At the end she pull out a sort of playstation from her backpack and start playing.
Second story
They are both professional, attorney or something like that, good ones we’ve been told. They live in a nice house, with gardens all around, and are in some way brave, having decided in the past to adopt a kid from Asia. She is twelve now. And then they have a boy of their own, fourteen or fifteen. And they look gray, dusty. Imploded.
Everything they do seems to be clumsy, gawky. They are not known to have friends. They live all together, doing everything together, mostly inside their home, which -people use to say-stinks, that muffled smell that evokes darkness and death.
The kids look at you with faded eyes, they are very gentle, always murmurs appropriate greetings. But I do not know why, you always end up comparing them to the characters of an horror movie, ready to smile and kill you very fashionably.
Now what I want to claim with this two stories? No blame at all: it could be easy to find the straw while avoiding to see our beam…
Just a provocation, food for thoughts. And a suggestion: let’s give up hurting us.
Now I wait for your comments, which are really welcomed.
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