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domenica 27 gennaio 2013

The authenticity of the shopping list - L'eticità della lista della spesa



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La versione italiana del post si trova qui sotto: scorrere in basso per trovarla grazie





Is there some ethics in a shopping list? Or this is just a joke, a surprising title to raise your attention but in the end leaving you with a bitter taste and nothing in your hands? Not really. This article –if you understand Italian you can read it here- written by Errico Buonanno points out the ethic relevance of writing down a shopping list and sticking to it when visiting a mart or a mall. To avoid that apparently free of consequence move that push you to take something you do not really need from the shelf and drop it in your cart just because you felt in love with the package or you have been overwhelmed by the desire to possess it.
The suggestion the author gives us is to stop and sit down and check what we really need, so to fill a detailed shopping list –by writing it down or using a smart app like Buy me a pie for instance- just of what you really need. That seems to be a good hint to re-discover the important of thinking and avoid acting impulsively: and we all know how is nowadays critical to base our decision on a rational analysis instead of on emotional or instinctive passions. 
So this simple clue is actually a strong suggestion to get back to virtues as fundaments of our life.


Versione Italiana




L’eticità della lista della spesa: sembra una sciocchezza, lo so. Una di quelle affermazioni che sono fatte per stupire ma che sono prive di succo, che lasciano senza soddisfazione. E invece no. In questo articolo di Errico Buonanno, (@ErricoBuonanno) apparso sul blog 27esimaora del CorSera, dove spesso si trovano interessanti spunti, mette in luce come la lista della spesa, che sia ancora redatta in forma cartacea o grazie a nuove spettacolari app come ad esempio Buy me a pie, che noi usiamo a casa, ha una forte valenza etica. Perché ci costringe a riflettere sul concetto di bisogno, e ci aiuta a fermarci un attimo prima di farci cogliere da quel gesto che senza apparenti conseguenze aggrava l’animo nostro con consumismo e voracità: prendere dallo scaffale un bene di cui non abbiamo necessità e deporlo nel carrello solo perché ci attira e stuzzica. Ecco che cosa scrive l’autore a quetso proposito: “La spesa ci parla di noi e, senza paura di strafare, possiamo dire che i consumi rappresentano forse un consumo più alto: quello dei giorni, il nostro rapporto con la vita e il futuro. Perché la lista è molto pratica, ma ha un unico scopo, da sempre, di qualsiasi tipo essa sia: contenere e racchiudere, ovvero combattere l’infinità dell’universo, dei desideri e delle voglie dell’uomo.
Scopo contrario a quello del supermercato, cioè, come sa bene chiunque frequenti questo tempio moderno dell’incontenibilità e della voglia”.

A voler guardare bene questo articolo quindi, si tratta di un pezzo che esalta le virtù, sobrietà e non solo, per ridare alla vita un senso che si fa profondo, che parte dal ragionamento (e quanto ce ne sia bisogno di recuperare l’importanza di non essere spontanei, immediati, ma riflessivi e consapevoli lo sappiamo tutti) e che mette tutto al vaglio di valori sui quali costruire la vita. I miei li trovate qui ad esempio.

E voi che cosa ne pensate?
mercoledì 9 gennaio 2013

Di mamme e sonno - Sleep awakeing problems


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If the baby wakes up during the night better leave them on their own than run to help them. This seems to the be astonishing conclusion of an analytic study conducted by a team of psychologists of the Temple University published by the Developmental Psychology Review. The article explains that “reported sleep awakenings were associated with difficult temperament measured at 6 months, breastfeeding, infant illness, maternal depression, and greater maternal sensitivity”.  In other words, if you do not have reasonable causes –the baby is ill- to run after your kid screaming in the night, just let him alone and wait for him/her fall asleep again. The more you are anxious the more the baby will fill the anxiety and the more she/he will awake at night.
Now, what is the problem? This fact was well known by our grandparents and from them upstream. Why have we lost the common sense about parenting? What should we do to learn it again? Do we need team of psychiatrist to tell us what our grandma could tell us?


La versione italiana 


Il Corriere pubblica con molta enfasi la notizia che un team di ricercatori della Temple University è giunto alla conclusione che un bimbo che si sveglia di notte va lasciato riaddormentare da solo. Nello studio originale si segnala che i risvegli ripetuti nel corso della notte sono dovuti sostanzialmente a due grandi cause: malattia del neonato o ansietà della madre. In altre parole: mamme state più calme e il bambino non si sveglierà di notte.
Ora ciò che colpisce di questa notizia non è il fatto in sé, che  forse potrebbe essere sconosciuto alle generazioni di giovani genitori di oggi, ma che i nostri nonni e da lì a scendere nei secoli era cosa ben nota, ma che per diffondere questo che altro non è se semplice buon senso ci si debba mettere un team di psicologi universitari dopo una accurata analisi su un campione selezionato di situazioni.
Bastava chiedere alla nonna.
Colpisce dunque il fatto che abbiamo perso la conoscenza del senso comune, delle piccole cose relative all’educazione che si respirano in ogni casa. Come possiamo riappropriarci di questa genitorialità di base? Abbiamo davvero bisogno che siano gli psicologi a insegnarci ex-catedra quello che potrebbe spiegarci la nonna? 
lunedì 7 gennaio 2013

Educazione e regole: cosa viene prima? - Rules and samples: what is more important?


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Janell Burley Hofman posted on her blog the code that she shared with her 13th years old kid;. Well actually  it would be better to define it this way: the instructions that she imposed to her kid. Here what happened; she gave Gregory a new iPhone for Xmas but with a strict contract  about how to use it.
It sounded interested to me and wise and a good way to teach a child how to really use such a device. 
So a retweeted the article and was surprised to get an answer which disputed the whole stuff claiming that imposing such a code to a kid was just a sign of a poor education. The gentleman, @arturo_caissut, pointed out that it is unworthy to ask a child to  abstain from downloading porn stuff . The gentleman said that you cannot order a guy such a thing, you have to teach him to stay away from porn products.
In fact also that sounds wise to me: so what is the right position?   
Now I would say that both are right: if it’s true that you have to educate your kids, with words statements and personal example, it is also true that human nature is fragile and the teen’s one even more. So you could, and should, sustain your kids’ will, walk side by side in helping them to obey and stay consistent with the value you teach them. Which means that the code Ianell proposed is a powerful tool.
What do you think about? What do you suggest?


La versione italiana




Le regole per l’uso del regalo che ti faccio: può essere una buona idea quella di Ianel Burley Hofman, giornalista dell’Huffington Post che, nel regalare un iPhon al figlio tredicenne per Natale ne condiziona l’uso con un lungo elenco di regole che posta anche nel suo blog. (A margine: sarebbe interessate capire che tipo di dinamiche familiari scatena questa voglia di rendere tutto pubblico quello che accade in famiglia, stendendo i panni bene in vista, come fanno anche alcune blogger molto famose parlando della vita dei loro piccoli bambini che prima o poi cresceranno e leggeranno che cosa dicevano di loro e delle loro famiglie queste mamme autrici. Perché se verba volant et scripta manent, web post manent in saecola saeculorum…).
Sembra comunque una idea intelligente perché nel porre condizioni di fatto trasmette il senso dell’oggetto, del suo uso e implica alcuni valori che, se non sono comunque bene evidenziati, sono peraltro presenti “embeded” nelle 18 regole affisse sulla porta del blog (e si immagina della camera del figlioletto).
Così, siccome la notizia l’ha proposta il Corriere, mi sembra bene ritwettare il pezzo per stimolare una riflessione.
Che arriva puntale a firma @arturo_caissut che dissente dall’operazione in modo particolare con riferimento a quella voce dell octadecalogo che minaccia sequestri se il mezzo viene utilizzato per scaricare alcunché di pornografico. Sostiene Arturo che se c’è bisogno di dirlo vuol dire che non l’ho insegnato bene. Vuol dire che non ho dotato il figlio di sani anticorpi.
Vero. Makes sense. Mica stupido il commento. Tutt’altro.
Quindi sorge un dubbio. Ha ragione la mamma blogger o il simpatico twittero?
Adesso non vorrei sembrare veltronesco ma mi sfugge un bel “ma anche” che sta per “hanno ragione tutti e due”.
Perché se è vero che è l’educazione che abbiamo saputo trasmettere ai figli quella che conta, specie se alle parole e ai dictat si è affiancato l’esempio positivo e concreto, che spiega che cosa è l’amore nella fattispecie, è anche vero che la natura dell’uomo è fragile e quella degli adolescenti ancor di più, specie sul sesso. Per cui accompagnare nell’obbedienza, assistere nell’educazione e nel rispetto dei valori… ci sta. Se come affermava Giuliana Ukmar dire di no vuol dire voler bene, forse anche mettere delle regole significa la medesima cosa.
Voi che cosa ne pensate?
sabato 5 gennaio 2013

L'alleanza educativa


Pubblichiamo volentieri un articolo di Michael Dall’Agnello, docente alla scuola media Braida di Verona, amante della montagna, che è apparso su Vita Nuova, settimanale diocesano di Trieste



Mettere assieme per costruire insieme
Pare che una delle ragioni per cui, dopo l’unificazione del 1989 che portava con sé il poco invidiabile retaggio dell’ex DDR, la Germania è tornata ad essere il motore economico dell’Europa, sia stata l’inesistenza delle controversie aziendali, grazie ad un patto, più o meno esplicito, tra lavoratori –sindacati compresi- e imprenditori: ognuno rinunciava in sostanza all’esclusività delle proprie rivendicazioni per trovare un accordo in funzione del bene dell’azienda e quindi di tutti.
Credo che questa sia una regola che si può applicare anche in campo educativo.
Alla base del successo tedesco sta un ideale condiviso –il bene dell’azienda- che per essere realizzato ha bisogno di comunicazione, cioè di mettere assieme per costruire insieme. Parallelamente alla base di una buona educazione sta un ideale condiviso –il bene dei figli-, che per essere realizzato ha bisogno di comunicazione, dapprima tra i genitori, e poi con tutti i soggetti che vengono a contatto con i figli. Mi riferisco per esempio alla cerchia parentale (nonni e zii che comunque devono sapere cosa vogliamo per i nostri figli), ai nostri amici, ma anche e soprattutto alla scuola.
Purtroppo oggi, anche in campo educativo, si confonde la comunicazione con lo scambio d’informazioni. E così, all’interno della famiglia, specie con l’arrivo dei figli, si passa da frasi del tenore di “Tu come stai?” ad altre come “Hai fatto questo?”, “Chi porta Giacomino scuola?” ecc., e si entra in una sorta di autismo relazionale, che prima o poi finisce per implodere o esplodere.
Comunicare invece vuol dire condividere le proprie aspirazioni e le proprie idee, le passioni e le fatiche, i sogni e le delusioni, i successi e le paure, in una parola instaurare una relazione vitale, significativa: partire cioè dal concetto che “Tu per me vali molto, e questo lo capisci prima di tutto da come ti guardo negli occhi!” Altrimenti basterebbe un computer per educare i nostri figli.
Per entrare in relazione bisogna imparare ad ascoltare.
Credo che ogni relazione, innanzitutto tra moglie e marito, ma anche quella con le altre “agenzie educative” tra cui la scuola, debba diventare, nonostante le inevitabili “stonature di percorso”, via via sempre più una sinfonia. Ognuno suona uno strumento diverso, note differenti, ma la musica deve essere una sola. Per educare i figli, tra marito e moglie, non importa granché chi sia a dirigere, l'importante è seguire il ritmo. A darlo sarà a volte la moglie, altre, il marito, e altre ancora –pur nella sua specificità- l’insegnate che condivide l’educazione del figlio. Il problema nasce quando ognuno va per conto suo e si finisce per trasformare la musica in rumore: quanti ragazzi sono frastornati dal “rumore educativo”! C’è bisogno di tornare ad imparare ad ascoltare -più col cuore che con le orecchie- e seguire il ritmo.
Ascoltare, ma anche avere un minimo di spartito, cioè un progetto educativo condiviso, che, pur con gli adattamenti e le variazioni del caso, venga ad essere il leitmotiv, il tema dominante. Il progetto educativo non è altro che il piano di lavoro che i coniugi devono avere per ogni figlio e così aiutarlo a diventare uomo, persona adulta, cioè onesta, leale, fedele, rispettosa degli altri, generosa e, in ultima analisi, felice.
Una volta tutte queste cose erano scontate; ad educare non erano solo i genitori, o la scuola, ma la società, perché questi valori erano condivisi, si viveva in una sorta di “villaggio educativo”, in cui ognuno svolgeva la sua parte. Oggi non è più così, viviamo in un modello di “società liquida”, in cui i rapporti non hanno più una base condivisa e rimangono spesso frammentari. Subentra perciò l’esigenza di una maggiore intenzionalità nell’educazione, perché niente è scontato. C’è inoltre bisogno di un’alleanza educativa tra i vari soggetti, e con la scuola in primis, la quale può fare ancora molto, perché anche oggi ha una funzione riconosciuta.
Nel mio lavoro d’insegnante capita di avere sì a che fare con i genitori, ma spesso si tratta di lamentele o proposte irrealizzabili, che portano purtroppo a un muro contro muro: da una parte la scuola e dall’altra i genitori. Si passa da frasi come “Il tal maestro ce l’ha con mio figlio” a “Il cibo della mensa non va bene” per finire con “Quel voto che ha dato a mio figlio non è corretto”… e ciò quando ancora si riesce a mantenere un contegno civile. Questo modo di rapportarsi non è né un’alleanza, né educativo, perché ognuno rimane dalla sua: non c’è vero ascolto, né tantomeno condivisione, e chi ci va di mezzo sono i ragazzi.
Come per il caso della Germania, dovremmo imparare a mettere da parte l’esclusività delle nostre rivendicazioni, per instaurare un’alleanza in cui, in un certo modo, si cerchi di tirare il carro nella stessa direzione. Ciò è possibile se abbiamo un progetto che vada oltre il transitorio, un’idea condivisa dell’uomo che vogliamo possa diventare nostro figlio, se impariamo a chiederci “Chi voglio diventi mio figlio?” più che “cosa”, e impariamo a comunicare con gli insegnanti con una visuale a 360 gradi. Credetemi, parlo da insegnante, spesso si può fare, soprattutto in quelle scuole in cui è chiaro l’intento di collaborare con i genitori, ci vuole solo un po’ di coraggio per lanciarsi, ma ne vale la pena!
mercoledì 2 gennaio 2013

Quanno ce vò ce vò - Let's be streight once in a while



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It happens:  if you surf often the web you may find out dome weird situation, which by the way offers you a cruel and precise image of the present situation, of what is supposed to be common sense, which may unfortunately be quite common, but I doubt it is sense at all.
Let’s talk of that mom I crossed one morning: she was firmly defend fathers and she claims her position loudly. Moms, let’s protect fathers because they feel excluded from that magic circle that link the baby to her/his mom and that sometime can be so exclusive to be a little pathologic.
Good point madam! You are so right! Fatherhood is a very important factor, like motherhood of course, in the growth of a child: she/he needs both parents, a woman and a man,  to understand what life is and to build her/his own personality. We discussed that several time.
But, wait a minute, let’s read what she wrote till the last line… and we discover that what she is actually saying is that “ok moms, be patient with your man, we all know he is not able to do what a mom do, but never mind, lets him play, let him act like a mom, and if he will never be as good as we are, be patient!”
So what? Re we talking of fatherhood? Not at all: but what a father can do is to aspire to be a sort of vice-mom, ready to get of the bench to give some rest to the starter, and nothing more.
So I could not resist and asked some questions to the lady about the role of the father, and got some puzzling answers: there is no difference between mother and father, no different role, no difference between maleness and femaleness, what’s matter is that both will submerge the kid with optimism and serenity. That’s it.
Well,, what I understood is that we have a huge job to do to restore the truth and to preserve children from a confuse sense of education.
What do you think about?  

La versione italiana




Capita che ti imbatti in curiose situazioni frequentando il web, che ti danno uno specchio tragico e preciso di un sentire che se non è comune poco ci manca e che comunque strepita molto e finisce per plagiare i pensieri e le coscienze.
Prendi una mattina quando incroci una mamma che vuole difendere i papà e lo dice chiaro e tondo che sta dalla loro parte, dato che già si sentono estromessi da mamme che vivono in maniera soffocante il loro rapporto con i neonato prima e il bimbo poi. E lo fanno perché li reputano incapaci.
Bene, pensi, ecco che finalmente si ragiona sull’importanza della presenza della figura paterna, distinta e diversa da quella della madre.
Poi ecco, in cauda venenum: lasciamogli fare i mammi qualche volta, anche se non saranno mai bravi come noi.
Quindi? Il padre non serve, specie come tale, ma siccome c’è e non possiamo tagliarlo fuori facciamogli fare la vice-mamma, e portiamo pazienza se non se la cava bene.
Chiedo spiegazioni e mi viene risposto che i ruoli non esistono, che mascolinità e femminilità sono inesistenti e che al bambino poco importa delle differenze tra papà e mamma, che basta che entrambi trasmettano al figlio ottimismo e serenità.
Ecco, situazioni come queste ti fanno capire che c’è molto da fare.
E voi che cosa ne pensate?