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venerdì 28 settembre 2012
L'asilo del bamboccioni? Una replica
Romana e romanista, come dice
la biografia ufficiale, giornalista della pagina Esteri del CorSera, lunga
esperienza in terra statunitense, autrice di un blog sui diritti umani in
collaborazione con Amnesty International, Monica Ricci Sargentini si concede puntate
di qualità su 27esimaora, il blog al femminile del CorSera che “racconta le
storie e le idee di chi insegue un equilibrio tra lavoro (che sia in ufficio o in casa), famiglia, se stesse. Il nome nasce da uno studio secondo il
quale la giornata delle donne in Italia dura 27ore allungandosi su un confine
pubblico-privato che diventa sempre più flessibile e spesso incerto”. Se con
“il lavoro e il senso di colpa” esplora la quadratura del cerchio tra maternità
e professione e in “le donne sono più intelligenti degli uomini?” disserta di
differenze tra i sessi e autostima, è con il pezzo sui bamboccioni all’asiloche ha fatto il botto. Non che gli altri articoli siano meno interessanti,
chiariamo, ma perché la reazione che ha suscitato la sua riflessione sulla
follia dell’inserimento all’italiana è stata di quelle che graffiano. No,
nessuno è corso a bruciare copie del CorSera davanti a via Solferino, ma sulla
rete la rissa tra i sostenitori di Monica e chi la apostrofava di crudeltà
verso l’infanzia si è fatta assai ruvida.
Come mai le è venuto in mente
di toccare uno degli argomenti più pericolosi dell’educazione?
Era tanto che volevo farlo.
Sono sempre stata molto insofferente verso gli atteggiamenti iperprotettivi
delle mamme italiane. Penso che un’educazione più spartana e “leggera” nel
senso di non ansiosa sia la ricetta giusta per crescere dei bambini sicuri di
sé, indipendenti e anche felici. Ai miei figli non impongo la maglietta della
salute, gli lascio fare il bagno anche dopo aver mangiato, non gli parlo delle
correnti d’aria e non penso mai che muoiano di fame. Se vogliono dormire da un amichetto
sono contenta. I gemelli a nemmeno tre anni sono andati in Inghilterra con la
tata a casa dei suoi genitori (che avevamo conosciuto), tutti hanno pensato che
fossimo pazzi, invece loro sono stati benissimo.
Secondo lei perché il suo
pezzo, con il quale concordo al 100%, ha sollevato queste reazioni molto
emotive?
Perché ha toccato un nervo
scoperto, una situazione che è sotto gli occhi di tutti. E’ stato come dire “il
re è nudo”. Che l’inserimento sia fatto per rassicurare le mamme e non i
bambini mi sembra abbastanza chiaro. Alla base di questo ragionamento c’è la
diffidenza, la sfiducia nell’affidare agli altri i propri figli perché meglio
della mamma non c’è nessuno. Un atteggiamento che porta danni perché bisogna
essere aperti al mondo e non chiusi.
Qual è il principio alla base
della sua riflessione?
Che non bisogna trattare i
bambini come se fossero di porcellana ma al contrario avere più fiducia nelle
loro possibilità di adattamento e nella loro fame di conoscenza. Le faccio un
esempio: ci preoccupiamo sempre che non prendano freddo quando è noto che i
bambini hanno più caldo di noi. Basta ricordarsi questo per placare l’ansia.
Pensi che noi alla materna abbiamo avuto un grosso problema nella classe di Eva
perché la maestra pensava che non la coprissimo abbastanza! E lo stesso avviene
con l’inserimento. Perché mai andare a scuola dovrebbe essere traumatico?
Perché il bambino dovrebbe piangere? Dopotutto le occasioni di distacco dalla
madre possono essere molteplici, la scuola non è l’unica. Secondo me
l’inserimento è sintomo di ansia, di iperprotettività, rende il bambino
insicuro e fragile.
Ma le mamme di oggi sono
troppo ansiose? Perché?
Un tempo c’era la saggezza
popolare. Quando nasceva un figlio si seguivano i consigli della mamma e della
nonna. Oggi le donne sono sole e spesso in balia delle mode. Come quella
dell’allattamento a richiesta. Un’altra follia, non solo italiana questa volta,
per cui si consiglia con molta insistenza alle neomamme di non dare una routine
al bimbo sin da subito. Con il risultato che molte smettono sentendosi in colpa
terribilmente. E che il neonato fatica a prendere un ritmo, a dormire sin da
subito la notte e non fa mai un pasto completo.
Quale responsabilità hanno
avuto e hanno gli operatori culturali, dagli psicologi fino ai giornali, nella
creazione di una mentalità pro-bamboccioni, cioè a favore
dell’iperprotezionismo sempre e comunque?
Sicuramente la doverosa
attenzione alla psicologia è stata esasperata e anche svuotata di significato
perché tutti ormai si sentono padroni della materia. Così capita che la
maestra, anzi l’educatrice come si dice oggi, definisca oggetto transizionale
il libro che il bambino vuole portare a casa, senza sapere che magari quel
bambino manifesta spesso quel desiderio e non solo a scuola. Alla materna dei
miei figli ho notato un uso spropositato di paroloni per descrivere l’attività
dei bambini. L’altro giorno sul Corsera ho letto un articolo che invitava i
genitori a non buttare i giocattoli dei figli perché dietro ognuno di essi c’è
un ricordo! Ho cominciato a immaginare ridendo case piene di giocattoli dove
non si poteva più entrare.
Perché all’estero è diverso
secondo lei?
Non voglio generalizzare ma
sicuramente nel Nord Europa c’è più pragmatismo e quindi i piedi rimangono per
terra. Ci si fanno meno problemi a prendere un aereo con un neonato o a
portarlo in alta montagna. Quante famiglie abbiamo visto in giro con dei bambini
piccolissimi? Della scuola inglese, infatti, mi piace l’essenzialità. Non mi
hanno mai chiesto di portare un bavaglino e questo perché il bambino deve
imparare a mangiare senza sporcarsi. Non lo trova giusto? All’Università negli
Stati Uniti gli studenti vivono nel campus e si guadagnano i primi soldi con
qualche lavoretto. Io, per esempio, allo Smith College mettevo a posto i libri
in biblioteca e mi pagavano. Questo vuol dire educare all’autonomia.
Quali sono a suo parere i
principali problemi che le famiglie oggi affrontano nell’educazione?
La mancanza di punti di
riferimento e di uno Stato che vada incontro alla famiglia. In Francia le madri
lavoratrici portano i bambini al nido a poche settimane dal parto. Qui invece
ti fanno sentire in colpa se non fai l’inserimento come se da quello si
misurasse il tuo attaccamento ai figli. E poi penso che sia negativa la
mancanza dell’autorità. Quando i genitori giocano a fare gli amici dei propri
figli, quando i professori vengono messi continuamente in discussione non solo
dai ragazzi ma anche da papà e mamma, non può venire fuori nulla di buono.
Quali principi dovrebbe
seguire una famiglia nell’educazione?
Questa è una domanda
difficile perché chiaramente ognuno alleva i figli secondo i propri principi.
Io per esempio penso che sia importante un’educazione un po’ all’antica i cui
pilastri sono il rispetto, la gentilezza, l’onestà, la tenacia, la fiducia e
l’amore per gli altri, lo studio duro e naturalmente le buone maniere. Penso
anche che sia fondamentale un percorso spirituale. Non mi sentirei mai di dire
a un bambino che Dio non esiste. Per decidere di non credere c’è sempre tempo.
Può darci tre consigli
che una famiglia dovrebbe seguire per essere felice?
Lei mi mette in difficoltà. Sicuramente il primo,
fondamentale, è dormire. Una famiglia felice deve poter riposare la notte.
Insegniamo ai neonati sin dai primi giorni ad addormentarsi da soli nella loro
stanzetta. Evitiamo i riti della buonanotte e se piangono non corriamo subito
in loro soccorso. Gli regaleremo la possibilità di essere autonomi sin da
subito!
Il secondo è amarsi. Se i bambini respirano armonia e
tenerezza in casa cresceranno più sereni. Lo dico da figlia di divorziati. E’
chiaro che non è facile e a volte
non è possibile. Ma è fondamentale per la stabilità interiore e anche per i
futuri rapporti affettivi dei nostri figli. La famiglia che siamo è il modello
che loro in qualche modo avranno dentro per sempre.
Il terzo è insegnargli a sognare, a pensare che nulla sia
impossibile. Io l’ho imparato in America: se vuoi una cosa veramente puoi
ottenerla, basta che ti impegni. Non
a caso gli americani la ricerca della felicità l’hanno messa tra i diritti
elencati nella dichiarazione d’Indipendenza. Ai miei figli ripeto sempre che
non bisogna mollare mai. E ci credo veramente.
martedì 25 settembre 2012
La necessità di ascoltare strada maestra dell'educazione
"Sono un
educatore. Riaccendere la speranza è il compito di ogni educatore. Questo blog è dedicato a tutti coloro che
credono in questa sfida."
Ecco: una
presentazione di questo tipo colpisce e stimola. Così ho colto l’opportunità di
porre qualche domanda a Saverio Sgroi, l’autore di queste due intriganti righe.
Che cosa significa "riaccendere la
speranza" e perché ce n'è bisogno oggi?
Riaccendere la
speranza vuol dire risvegliare nelle
persone il desiderio di cose grandi. Un desiderio che negli adolescenti è
molto vivo ma che spesso questi perdono man mano che crescono e guardano agli
adulti: le paure, la disillusione, il disimpegno, a volte cinismo di chi
dovrebbe rappresentare per loro un modello di vita spegne in essi il desiderio
e la speranza nel futuro.
A questo si
aggiunge il fatto che viviamo in un mondo appiattito sulla dimensione
orizzontale, ma l'uomo è fatto anche per un’altra dimensione, quella verticale.
Se la esclude perde di vista il senso della propria vita.
Qual è la principale sfida educativa di oggi?
Credo che la sfida
più grande che abbiamo davanti sia quella di riscoprire la bellezza di educare.
Da un lato dobbiamo recuperare una dimensione pedagogica che purtroppo negli
anni ha lasciato troppo spazio a quella patologica: si ricorre troppo spesso al
terapeuta perché non si educa più. Dall'altro lato è necessario riscoprire il
senso dell'educazione e cioè aiutare l'uomo a diventare quello che è chiamato
ad essere: una persona libera che si realizza nella relazione di impegno con
gli altri.
Che cosa preoccupa le famiglie oggi?
È difficile dirlo
in poche righe. Credo che le famiglie risentano del clima di incertezza che si respira nella società. Le difficoltà del
lavoro, quelle educative, la precarietà delle relazioni, ci condizionano e ci
fanno reagire, quasi senza che ce ne rendiamo conto, con un innalzamento del
livello ansiogeno. Si diventa ossessivamente preoccupati del futuro dei figli,
ma anche del loro presente. Questo però rischia di limitare lo sviluppo
dell’autonomia nei ragazzi. Se essi si sentono costantemente sotto il controllo
dei genitori, se sanno che tanto poi ci sono papà e mamma a tirarli fuori dai
guai, come faranno a crescere e a divenire capaci di sbrigarsela da soli?
Che cosa fa soffrire le famiglie oggi?
Anche a questa
domanda è difficile rispondere. Credo che la sofferenza sia uno dei più grandi
misteri della vita dell’uomo, un mistero di fronte al quale ciascuno di noi
dovrebbe fare un passo indietro prima di dire qualsiasi parola. Un passo
indietro di rispetto nei confronti di chi soffre. Premesso ciò, penso che ciò
che fa soffrire i genitori sia sempre la stessa cosa, oggi come ieri: vedere
sbagliare il proprio figlio e sentirsi impotenti, aver paura che le scelte che
compie non lo rendano felice, fare i conti con la sua richiesta di libertà e
autonomia. So per esperienza che si soffre tanto davanti ad un ragazzo
adolescente che reclama la sua libertà. Ma, dicevo prima, è il prezzo da pagare
per farlo diventare grande.
Quali sono i temi del tuo blog che ottengono
maggiore interesse? perché secondo te?
Sono i temi che riguardano l’affettività:
l’intimità, le emozioni, i sentimenti, la sessualità. Non mi meraviglia che sia così, perché oggi è più
facile comunicare con i sentimenti piuttosto che con la razionalità. I genitori
stessi hanno un rapporto diverso con i figli, rispetto a come era qualche
decennio fa, la famiglia da normativa si è trasformata in affettiva. Anche gli
articoli su Facebook riscuotono un grande successo.
Dal tuo osservatorio che spaccato di famiglia ne
risulta?
Premetto che il
mio è un osservatorio parziale, ossia il punto di vista degli adolescenti. I
ragazzi oggi non fanno la guerra ai genitori, come avveniva vent’anni fa. Anzi,
essi hanno il desiderio di comunicare con i propri genitori, anche se lo fanno
a modo loro; e soprattutto hanno un
grande desiderio di essere capiti e ascoltati. Credo che la partita oggi si
giochi sulla capacità dei genitori di imparare ad ascoltare i propri figli.
Conosco ragazzi che hanno uno splendido rapporto con i genitori perché sanno
che possono sempre contare sempre su di essi, quando lo vogliono. Direi che c’è
un grande bisogno di una famiglia molto comunicativa.
Ci dai tre consigli per avere una famiglia...
felice?
Mia mamma mi dice
sempre che per andare d’accordo, in famiglia come nella vita, bisogna essere
disposti a cedere qualche volta. Non sempre, ovviamente. Bisogna imparare a
farlo “a turno”.
E allora i tre
consigli che mi sento di dare sono: comprendersi,
accettarsi, e fidarsi a vicenda.
In definitiva non dico nulla di nuovo,
perché sono gli ingredienti dell’amore!
Saverio
Sgroi, è direttore del Centro di Orientamento dell’Arces di Palermo,
educatore e prossimo giornalista. Lavora da più di 20 anni in attività
educative con gli adolescenti, che incontra frequentemente nelle scuole per
parlare di educazione dell’affettività. Ha svolto diverse conferenze e incontri
per educatori (genitori e docenti) sul mondo degli adolescenti,
sull’affettività, sulla comunicazione genitori-figli e sui social network. Dal
2008 ha fondato e gestisce il portale per teenagers Cogito et Volo Da quasi due anni scrive
per alcune riviste periodiche, su temi che riguardano l’educazione. I suoi
articoli sono raccolti sul sito La
sfida educativa.
sabato 22 settembre 2012
Un eroe per papà
Ci sono libri che sgomentano, che vorresti non aver mai
incrociato. Come un bambino, vorresti ficcare la testa sotto il cuscino per
fingere che non esista, che il vento sia solo vento e non il soffio di un
dinosauro gigantesco pronto a distruggere la tua casa e portarti via le persone
che ami. Eppure non sei più bambino e il mostro lo devi guardare negli occhi perché solo così,
solo prendendone consapevolezza, lo puoi sfidare e vincere e ricacciarlo
lontano.
Che siano tempi duri per l’educazione nemmeno un provocatore
d’esperienza e d’eccezione può negarlo, che il rigurgito di ubris dei padri
stia travolgendo, come un’onda sozza e morbida, i figli forse non tutti lo
comprendono, ammaliati dal canto delle sirene che promettono libertà
nascondendo nella fossa dei cadaveri la responsabilità che li ha ridotti prima
a pòrci e poi a carogne. Ma è così.
E quando pensi di startene tranquillo, nel tuo guardino a
contemplare le rose, mentre attorno la catastrofe nucleare sta radendo tutto al
suolo e incenerendo, ecco che basta un libro, o una conversazione
apparentemente banale a tavola d’estate sull’uso dell’intimità delle figlie,
per prenderti per i capelli e ficcarti con violenza la testa sottacqua.
Ed è un vero e proprio waterbording questo saggio di Meg
Meeker, pediatra statunitense con interesse per l’educazione, tradotto in
Italia dalla brava Sossy Manoukian, anch’essa esperta di pedagogia e
adolescenti, il cui titolo originale Strong fathers strong daughters è stato
tradotto con il più colorito ed immediato Papà
sei tu il mio eroe. Ho
intervistato Sossy chiedendole di entrare in profondità nel testo e qui (prima parte) e qui
(seconda parte) trovate le sue sagge risposte che illustrano perché il
padre ha un ruolo così significativo nella vita e nello sviluppo delle figlie
femmine e deve proprio essere il loro eroe.
Mi riservo di approfondire il terrore che questo libro mi ha
spalancato d’innanzi per convincere anche voi non solo a leggerlo, ma a darvi da
fare –subito- per evitare che le nostre figlie cadano in quest’abisso di dolore
che potrebbe segnarle per tutta la vita. Perché di questo si tratta, della loro
felicità, del loro futuro, della loro solidità. Che è una illusione pensare che
averle attrezzate con una buona e dettagliata educazione sessuale per farle
camminare solari e fiorite nell’altopiano della vita, dove tutto è profumo e
cielo e vette innevate. Anzi, la devastante descrizione di quali effetti una
precoce e frequente intimità dilapidata possa produrre nell’esistenza di una
bambina –gli studi istituzionali statunitensi riportati dalla Meeker parlano di
inizio delle attività sessuali intorno agli 11 anni- se il padre non prova
almeno a indirizzarla verso una strada corretta, producono un sano senso di
auto-analisi in ogni genitore, nel tentativo di comprendere dove e quando ha
sbagliato e che cosa può fare per correggersi.
Perché è inutile illudersi: tutti sono esposti alla
debolezza e non esiste nessuna famiglia che possa garantire che i suoi ragazzi
no, mai e poi mai, perché noi, perché i valori, perché le amicizie… Conosco più
giovani di “buona famiglia”, tutti “casa, scuola e oratorio”, tutti
“volontariato e preghiere” che si sono sposati perché in tre che non…. Lasciamo
perdere.
Arriva una età in cui un genitore può solo affidarsi a due
cose, e con grande differenza che non sto qui a dettagliare: la preghiera e ciò
che ha fatto fin lì. Infatti questo dobbiamo pensare: che siamo stati capaci di
trasmettere il senso di quei valori –redde ratinem!- per cui vale la pena, per
cui la pazienza paga, per cui il pudore non è oscurantismo. E non favorire le
tentazioni, non giocare a fare il moderno e facilitare, ben consapevole che
l’occasione si può creare comunque e ovunque. Poi c’è la libertà, quella dura e
tagliente cosa che Dio ha creato per permetterci l’amore, e la responsabilità
–oh questa sì da insegnare- che a se stessi e a Dio dovranno rendere conto.
Per questo il saggio di Meg Meeker è un aiuto formidabile,
perché ci guida a comprendere come padri che cosa possiamo fare per mettere
tutto in gioco, tutto sul loro comodino perché in questa giungla metropolitana
oggi sappiano difendere se stesse dai seducenti Lucignoli che in tutti i modi,
agghindandosi da principiazzuri o da lupi famelici (e non so oggi che cosa
attizzi di più), trascinino le nostre bambine nel paese dei profumi, che i
balocchi li hanno ormai lasciati alle spalle…
E se osate pensare che la mia è realmente una bambina e c’è
tempo e non è il caso di preoccuparsi ora, sia anatema, perché state perdendo
il tempo di seminare ed è un tempo che scivola via più rapido di una Olimpiade,
di una medaglia persa all’ultimo secondo, o rubata da una giuria compiacente.
Leggete e poi mi direte. Non sciupate il tempo, che non si
sa mai se ci offrirà mai nuovamente il suo sguardo benigno.
giovedì 13 settembre 2012
Bamboccioni all'asilo?
Ripubblichiamo volentieri questo articolo apparso sul blog 27esimaora del CorSera in data 12 settembre 2012 perché offre interessanti riflessioni sull'educazione fin dalla scuola materna e sul ruolo dei genitori nell'educazione all'autonomia.
Interessante ragionare sull'ansia dei genitori che sembrano, specie nei commenti sulla pagina originale, tra chi accusa l'autrice di schierarsi dalla parte dei "parcheggiatori" di figli e chi invece ne sostiene le tesi confermando che questo atteggiamento iperprotettivo finisce per generare bamboccioni.
Ma davvero si può parlare di trauma dell'abbandono? Davvero non è possibile sviluppare la fortezza dei bambini fin dall'asilo? Davvero non si può superare l'ansia dell'abbandono? Davvero si rischia di lasciare strascichi profondi nella psiche dei piccoli? Come hanno fatto le nostre generazioni a sopravvivere a tutti questi traumi, dato che in passato queste "delicatezze" erano ignote?
Ringraziamo l'autrice Monica Ricci Sargentini per questa intelligente provocazione.
In questi giorni si aprono le scuole. L’inizio dell’anno scolastico dovrebbe essere un momento gioioso per i bambini e i loro genitori. Ma per quelle mamme e, più raramente, per quei papà che portano i loro figli alla materna l’ingresso nella scuola sarà un percorso a ostacoli, una specie di incubo kafkiano che si chiama inserimento. Il programma varia a seconda dell’Istituto ma, quasi sempre, prevede un paio di settimane in cui i bambini devono adattarsi al nuovo ambiente progressivamente per non subire traumi e quindi vengono accompagnati da uno dei genitori in classe: all’inizio restano per una quantità di tempo minima che poi lentamente aumenta fino ad arrivare al tempo pieno. Un fenomeno tutto italiano che spesso obbliga la mamma o il papà persino a prendersi le ferie.
L’anno scorso è toccato anche a noi. Alla scuola materna di Via Mantegna a Milano hanno deciso a priori, senza nemmeno conoscere i pargoli, che i nostri due gemelli dovevano iniziare con un’ora di asilo al giorno e uno dei genitori doveva sempre essere presente. Ma io ero a Londra per lavoro e questo ha creato un primo problema visto che Eva e Bruno erano in classi diverse. Quale madre snaturata va all’estero in un momento così importante (sottinteso potenzialmente difficile/traumatico) per i propri figli? Come mai non si sente immensamente in colpa? Ma tant’è le maestre hanno dovuto far buon viso a cattivo gioco e accontentarsi della tata (e di mio marito ovviamente). Io mi sono presentata quando ormai la settimana di passione era quasi finita. Ero in classe con Bruno che giocava senza problemi, dopo cinque minuti ho cominciato a friggere, la mia presenza mi sembrava totalmente inutile. Così ho chiesto alla maestra se me ne potevo andare visto che il bambino era chiaramente “inserito”. Ma lei mi ha risposto scandalizzata di no, che la prassi era aspettare almeno una mezz’ora a prescindere da come si comportava il pargolo.
La domanda che vi pongo è la seguente: perché dobbiamo drammatizzare in questo modo un evento naturale e piacevole come l’ingresso alla materna? Cosa devono pensare i nostri figli? Che li stiamo portando in un luogo pericoloso dove forse non vorranno restare perché sicuramente è meglio passare il tempo con la mamma? E poi ci lamentiamo dei bamboccioni che a trent’anni stanno ancora a casa con i genitori! Ma se glielo abbiamo insegnato noi tra mille premure, paure, apprensioni supportate dalla psicologia da salotto che è tanto in voga.
E’ vero. Un tempo i nostri nonni si facevano pochi problemi. E spesso crescevano i figli a suon di sganassoni. Ma oggi siamo passati all’eccesso opposto. Alleviamo i nostri bambini come se fossero fatti di porcellana, crediamo che possano rimanere segnati a vita se perdono un giocattolo che gli è caro, li copriamo fino a farli scoppiare di caldo per paura che si ammalino (non a caso siamo il Paese delle correnti d’aria e della cervicale), chiediamo se e cosa hanno mangiato come se ci fosse il rischio che muoiano di fame. Non capiamo che il regalo più grande che possiamo fargli è l’indipendenza, la capacità di camminare con le proprie gambe, di non temere gli altri.
In altre parti del mondo non è così. L’inserimento non esiste. Ne ho avuto la prova venerdì scorso quando è iniziato il primo anno di materna nella scuola britannica di Milano, Sir James Henderson School. Io e mio marito abbiamo portato i bambini in due classi diverse dove sono stati accolti con grande serenità. Dopo cinque minuti Eva dipingeva, Bruno giocava. Ho detto a una delle due maestre: “Vedo che il bambino è tranquillo, io andrei”. Lei mi ha risposto: “Signora prima se ne va e più facile sarà il mio compito!”. Non potevo credere alle mie orecchie. Tempo pieno da subito e senza drammi. Certo qualcuno piangeva. E allora la mamma rimaneva lì per qualche minuto in più. Ma poi se ne andava comunque e il piccolo dopo poco smetteva. Come è normale che sia, tranne che qui da noi. Tanto che la direttrice della lower school, Angela Dean, si è sentita in dovere di fare ai genitori il seguente discorso:
“Uno dei nostri obiettivi è l’indipendenza. Sappiamo che l’approccio in Italia è molto protettivo. Gli mettete sempre voi il maglione, gli preparate la cartella. Per favore cercate di cambiare atteggiamento e rendete i vostri figli più autonomi. Altrimenti a scuola si aspetteranno da noi lo stesso comportamento!”.
E’ ora che noi mamme italiane impariamo ad allentare la corda, a essere più leggere, a non rimuginare. Una volta una mia amica mi ha confessato di provare un immenso piacere ad avere i figli che piangevano non appena usciva di casa: “Mi fa sentire la più importante”. Senza rendersi conto di quanto così li rendeva insicuri, negandogli la libertà di crescere cittadini del mondo.
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